C.I.E. e repressione
I C.I.E., istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, allora denominati centri di permanenza temporanea, sono strutture nelle quali vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno. I migranti si trovano all’interno di questi centri con lo status di trattenuti o ospiti, ma la loro permanenza corrisponde di fatto a una detenzione. Sono quindi privati della loro libertà personale per il fatto di aver violato una disposizione amministrativa.
Di fatto i centri sono inadeguati a garantire condizioni di permanenza dignitose ai migranti trattenuti, le norme che regolano la vita all’interno dei cie sono particolarmente rigide e restrittive tali da rendere afflittive le condizioni di trattenimento.
Oggi, a sedici anni dalla loro istituzione, il sistema della detenzione amministrativa nel contrasto dell’immigrazione irregolare ha avuto una modesta rilevanza e una scarsa efficacia, tuttavia gli ultimi governi non hanno mostrato l’intenzione di chiudere questi centri-lager e di non rispondere più con politiche securitarie ai bisogni di uomini e donne.
Solo i migranti trattenuti nei cie hanno saputo ribadire, con modalità di lotta anche estreme, un diritto alla vita. Vivere significa anche essere liberi di spostarsi, di migrare in base alle proprie esigenze. Le lotte degli ultimi anni hanno posto un unico e grande imperativo: chiudere tutti i cie. Alcuni di essi sono già stati chiusi, non per il buon cuore delle istituzioni, ma per le devastazioni e le rivolte scoppiate all’interno. Il 2011 sarà ricordato come l’anno più caldo nei centri di identificazione ed espulsione: scioperi della fame, autolesionismo, incendi, evasioni e rivolte. I migranti hanno voluto così riconquistare il proprio diritto a viaggiare, non riconosciuto per le vie legali.
Nonostante i più lieti preannunci, come la riduzione del tempo di permanenza all’interno di un C.I.E. a un mese, è assente ogni tentativo di sperimentare strumenti meno afflittivi. Anzi la repressione si prospetta più dura ma lontana. Con l’ultimo accordo di cooperazione militare tra Italia e Libia, sottoscritto a Roma il 28 novembre 2013 dai ministri della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinni, è stato autorizzato l’impiego di droni italiani per missioni a supporto delle autorità libiche per le attività di controllo del confine sud del paese. L’obiettivo è quello di intercettare gli automezzi dei migranti quando attraversano il Sahara e i militari libici potranno intervenire per detenerli e deportarli. Ecco quindi che dietro la finta sensibilità di ministri e capetti di fronte ai cadaveri sulle spiagge di Lampedusa, di fronte a un numero spaventoso di esseri umani che incontrano la morte tentando la fuga per un avvenire migliore, si nasconde il volto noto della repressione che viene incontro alle necessità con navi da guerra e droni.